Nel contesto lavorativo italiano, uno degli argomenti più delicati e spesso meno compresi è il “periodo di comporto“. Questo termine potrebbe sembrare tecnico, ma in realtà riguarda una delle questioni più pratiche e importanti per i lavoratori: cosa accade quando si è costretti ad assentarsi dal lavoro per malattia o infortunio. Il diritto a mantenere il proprio posto di lavoro anche in situazioni di malattia è fondamentale, ed è proprio qui che entra in gioco il periodo di comporto. Si tratta del periodo massimo di assenza per malattia che un lavoratore può accumulare senza rischiare di essere licenziato.
Questo concetto è regolato dal diritto del lavoro e dai contratti collettivi, che variano a seconda del settore, ma in generale stabiliscono delle soglie precise. Al termine del periodo di comporto, il datore di lavoro potrebbe decidere di interrompere il rapporto lavorativo per giusta causa, ovvero per sopraggiunti motivi legati alla lunga assenza del lavoratore. Tuttavia, ci sono numerose variabili da considerare, tra cui la durata del periodo di comporto, come viene calcolato e quali diritti e doveri sono associati sia per il lavoratore che per il datore di lavoro.
Un aspetto fondamentale riguarda la protezione del lavoratore, che è garantita entro i limiti stabiliti, ma che può essere compromessa se l’assenza supera i termini previsti. Capire nel dettaglio come funziona questo meccanismo è essenziale sia per i lavoratori che per i datori di lavoro, in quanto permette di gestire meglio situazioni delicate e a volte inevitabili, come le lunghe malattie o gli infortuni.
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Cosa si intende per periodo di comporto
Il periodo di comporto rappresenta il lasso di tempo durante il quale un lavoratore assente per malattia ha il diritto di mantenere il proprio posto di lavoro. Durante questo periodo, il lavoratore non può essere licenziato, a meno che non si verifichino altre circostanze particolari, come ad esempio il fallimento dell’azienda o la chiusura dell’attività. È importante chiarire che il periodo di comporto non si riferisce a un numero fisso di giorni stabilito in assoluto, ma varia a seconda del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) applicato e, in alcuni casi, in base a specifici accordi aziendali.
Questo periodo rappresenta una sorta di “paracadute” per il lavoratore che, trovandosi in una condizione di salute compromessa, ha la necessità di assentarsi dal lavoro senza temere ripercussioni immediate sul proprio contratto. Tuttavia, è altrettanto importante sapere che, una volta terminato il periodo di comporto, il datore di lavoro ha la possibilità di interrompere il rapporto di lavoro, se lo ritiene opportuno e nel rispetto delle norme vigenti.
Nel diritto del lavoro italiano, questa disposizione ha il fine di bilanciare due esigenze fondamentali: da un lato, il diritto del lavoratore di riprendersi senza subire la perdita del lavoro; dall’altro, la necessità del datore di lavoro di garantire la continuità aziendale e di non subire eccessive interruzioni operative.
Qui puoi approfondire le differenze con l’aspettativa per motivi personali.
Quanto dura il periodo di comporto
La durata del periodo di comporto varia a seconda del contratto collettivo nazionale di lavoro di riferimento. In linea generale, però, si possono distinguere due principali tipologie di comporto: quello secco e quello per sommatoria.
Nel comporto secco, viene considerato un singolo episodio di malattia, il che significa che il lavoratore si assenta una sola volta per un periodo continuativo. In questo caso, la durata del comporto potrebbe essere, a seconda del contratto, di 90, 120 o 180 giorni.
Nel comporto per sommatoria, invece, si calcolano tutte le assenze per malattia che il lavoratore accumula nel corso di un determinato arco temporale, solitamente di un anno. Questo significa che il lavoratore potrebbe assentarsi per brevi periodi più volte nell’anno, e ogni episodio di malattia verrebbe sommato fino a raggiungere la durata massima prevista dal contratto.
In alcune categorie, come nel settore pubblico, la durata del periodo di comporto può essere ancora più articolata, con possibilità di estensioni o variazioni a seconda della durata del rapporto di lavoro e della gravità della malattia.
Come si conteggia il periodo di comporto
Il conteggio del periodo di comporto non è sempre semplice e lineare, poiché dipende da vari fattori. Il primo elemento da considerare è il tipo di contratto collettivo applicato, poiché è questo che stabilisce le modalità di calcolo.
In genere, ogni giorno di assenza per malattia viene conteggiato, a prescindere che si tratti di giornate lavorative o festive. Questo significa che anche i weekend o i giorni non lavorativi possono essere inclusi nel calcolo del comporto, a meno che il contratto collettivo non disponga diversamente.
È importante sottolineare che il periodo di comporto può essere interrotto o “congelato” in alcune situazioni particolari. Ad esempio, in caso di maternità o infortunio sul lavoro, il conteggio potrebbe subire delle modifiche, fermandosi temporaneamente per poi riprendere in seguito.
Un altro aspetto da considerare è la differenza tra assenze continuative e frazionate. Nel caso del comporto per sommatoria, come già accennato, anche più episodi brevi vengono accumulati fino a raggiungere il limite massimo. Questo meccanismo rende il calcolo più complesso e richiede un’attenta gestione da parte del datore di lavoro.