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Balanced scorecard nel controllo di gestione: integrare strategie e performance

​balanced scorecard​

Per lungo tempo, le performance aziendali sono state valutate quasi esclusivamente attraverso indicatori economici, come se redditività e utili bastassero a raccontare il funzionamento di un’organizzazione. Ma il contesto è cambiato. Cresce l’esigenza di strumenti capaci di collegare i risultati a ciò che li genera: processi interni, qualità delle relazioni, investimenti sulle persone, coerenza delle scelte.

La Balanced scorecard, proposta da Kaplan e Norton nei primi anni ’90, si inserisce proprio in questo solco: non tanto per sommare dimensioni diverse, quanto per creare un sistema che le metta in relazione, rendendo visibile ciò che altrimenti resterebbe ai margini.

Dalla strategia alla gestione quotidiana, passando per i processi decisionali, il metodo BSC ha trovato spazio in contesti differenti, dalle grandi multinazionali ai sistemi pubblici. A fare la differenza, spesso, non è la complessità dell’organizzazione, ma la sua disponibilità a misurarsi con la strategia in modo concreto.

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Un metodo che nasce da un’esigenza ben precisa

Quando nel 1992 Kaplan e Norton pubblicarono il loro articolo sulla Harvard Business Review, erano ben consapevoli dei limiti degli indicatori tradizionali. Il rischio non era solo quello di leggere in modo parziale la performance, ma di trasmettere ai manager segnali fuorvianti. Concentrarsi esclusivamente su margini, utile o valore per l’azionista poteva portare a scelte miopi, penalizzando investimenti in competenze, relazioni con i clienti o innovazione tecnologica.

La loro proposta era chiara: affiancare alla dimensione economico-finanziaria altre tre aree capaci di rendere conto della coerenza interna e della proiezione futura dell’azienda. Il risultato fu un sistema costruito su quattro prospettive: economica, clienti, processi interni, apprendimento e sviluppo. Non compartimenti stagni, ma punti di osservazione che interagiscono tra loro.

Dalla strategia alla mappa: la costruzione della scorecard

La forza del modello sta nella sua capacità di tradurre la strategia in azione. Prima di misurare, serve chiarire dove si vuole andare e quali sono le priorità. È a questo punto che entra in gioco la mappa strategica: una rappresentazione grafica che mette in relazione obiettivi e indicatori lungo le quattro prospettive.

La mappa consente di visualizzare la logica causale che collega, ad esempio, la formazione dei dipendenti all’efficienza dei processi, fino alla soddisfazione del cliente e alla redditività. Non si tratta di una teoria dei giochi: ogni collegamento presuppone scelte, investimenti, rinunce. Ed è proprio per questo che lo strumento si dimostra utile anche in contesti molto diversi tra loro.

Nel settore bancario, ad esempio, Unicredit ha sviluppato la Balanced scorecard come leva per il controllo strategico e il monitoraggio delle performance nelle sue diverse aree operative. L’esperienza è documentata in modo dettagliato in questo studio accademico su ResearchGate, che ne ricostruisce evoluzione e risultati.

Dove si misura, si guida: il legame tra controllo e strategia

Nel linguaggio aziendale, si tende spesso a separare la formulazione della strategia dalla sua esecuzione.

Da un lato le grandi linee, i piani quinquennali, gli obiettivi; dall’altro le scelte quotidiane, le metriche, i bilanci. La Balanced scorecard mira a colmare questa frattura. Non attraverso un sistema prescrittivo, ma costruendo un ponte tra visione e gestione.

Questo passaggio si realizza attraverso tre passaggi fondamentali: la definizione degli obiettivi (coerenti con le quattro prospettive), la scelta degli indicatori di performance (quantitativi, ma anche qualitativi), e la costruzione di un sistema di monitoraggio che consenta correzioni in itinere.

Un aspetto interessante riguarda la capacità di integrazione verticale: i grandi obiettivi strategici vengono “tradotti” in obiettivi operativi a livello di funzione o unità organizzativa. Non per creare vincoli, ma per consentire coerenza. È così che la Balanced scorecard diventa uno strumento di governo, non solo di misurazione.

Lavorare sugli indicatori: questione di metodo, non solo di dati

Si tende a pensare che la parte più complessa sia scegliere gli indicatori giusti. In parte è vero: non esistono metriche valide per ogni contesto e ogni settore impone criteri specifici, conoscenza tecnica e consapevolezza strategica.

Ma il vero problema è un altro. Gli indicatori, per essere efficaci, devono essere compresi, condivisi, utilizzati.

Ciò significa che il controllo non può essere appannaggio esclusivo del management. Per funzionare, la Balanced scorecard deve diventare linguaggio comune. In questo senso, le aziende che riescono a farla vivere sono quelle che la collegano a sistemi di valutazione, piani di sviluppo, percorsi formativi. La metrica, da sola, non basta.

Il punto non è costruire una dashboard ricca di numeri, ma garantire che quei numeri siano letti, interpretati, contestualizzati. Solo in quel momento il controllo può trasformarsi in un sostegno reale alla strategia.

Una riflessione sull’utilità del metodo oggi

Oggi il rischio non è tanto quello di mancare informazioni, quanto di esserne sopraffatti. Ogni organizzazione dispone di enormi quantità di dati, ma non sempre ha gli strumenti per leggerli in modo coerente. La Balanced scorecard, in questo senso, continua ad avere una sua utilità, soprattutto perché impone una domanda semplice ma fondamentale: cosa vogliamo davvero misurare?

Rispondere a questa domanda richiede coerenza, consapevolezza e, soprattutto, una direzione. È per questo che la BSC, quando viene adottata con rigore e intelligenza, riesce ancora oggi a creare valore: non tanto perché promette di semplificare, ma perché aiuta a mettere ordine. E a orientarsi, anche quando i segnali sembrano contraddirsi.