Il termine quiet quitting 2.0 non è né ufficiale, né riconosciuto dalla sociologia come nuova fase del cosiddetto quiet quitting, espressione che abbiamo iniziato a conoscere e utilizzare di recente. Ciononostante, vi sono già esperti che stanno usando queste parole allo scopo di descrivere un fenomeno che va oltre il concetto di fare il minimo indispensabile sul posto di lavoro. Si riferisce a dipendenti che, pur rimanendo fisicamente presenti, sono emotivamente e mentalmente disimpegnati, sentendosi sottovalutati o disillusi riguardo alla loro carriera. Ripercorriamo l’evoluzione del disingaggio silenzioso negli ultimi anni.
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Come è cambiato il quiet quitting rispetto al 2022
Abbiamo conosciuto il quiet quitting nell’immediato dopo-lockdown. Al tempo, riscoprimmo l’importanza del benessere mentale , dopo decenni di colpevole indifferenza nei confronti di questo malessere. Quando parlavamo di quiet quitting, nel 2022, si trattava, pressoché esclusivamente, di una questione di equilibrio tra lavoro e vita privata. L’accezione attuale, indicata dalla specifica 2.0, segnala un malessere più ampio, legato a mancanza di motivazione, disinteresse per la crescita professionale e perdita di fiducia nell’azienda per la quale si è impiegati.
Laddove il quiet quitting originale rappresentava un vero e proprio abbandono silenzioso, e chi lo intraprendeva evitava di fare straordinari non pagati, concentrandosi solo ed esclusivamente sulle mansioni previste dal contratto, il quiet quitting 2.0 indica una forma di disaffezione più profonda. I dipendenti non si sentono più parte della missione, né dei valori dell’azienda. Ciò porta, potenzialmente, a una diminuzione di produttività e morale. Se i lavoratori coinvolti sono numerosi, l’intera realtà finirà per soffrirne.
I segnali meno visibili del nuovo disingaggio
Un attento osservatore è in grado di cogliere i segnali di disingaggio dei lavoratori. La maggior parte di essi sono celati, poco visibili e non confessati (non a caso, quiet significa silenzio), ma è possibile coglierli. Generalmente, i più diffusi sintomi che caratterizzano il lavoratore disaffezionato sono i seguenti:
- calo del coinvolgimento. Un evidente disinteresse verso le attività lavorative, una diminuzione della partecipazione alle riunioni o ai progetti e una generale mancanza di entusiasmo segnalano che si sia persa quella scintilla che motivava il lavoratore a dare il meglio di sé per l’azienda e il prosieguo della propria carriera;
- aumento dell’assenteismo. Un crescente numero delle assenze per malattia, una inconsueta mole di richieste di permesso retribuito o anche solo numerosi ritardi, soprattutto se legati a lavoratori che prima non avevano alcuna difficoltà a rispettare gli orari, possono indicare un tentativo di evitare di presentarsi al lavoro;
- ritiro dalle interazioni sociali. Isolarsi dal resto del team, evitare le conversazioni informali e/o tenersi in disparte durante le attività di gruppo, sono segnali di una crescente distanza emotiva dalla propria professione e dal luogo ove la si svolge;
- riduzione della qualità del lavoro. Cali di precisione, nella cura dei dettagli e nella qualità complessiva del lavoro svolto indicano una mancanza di impegno e attenzione verso le proprie mansioni. Se simili episodi avvengono con frequenza, significa che sta suonando un campanello di allarme;
- indifferenza verso i risultati conseguiti e ottenuti, tanto individualmente quanto in team;
- esecuzione del minimo indispensabile. Quando il lavoratore si limita a svolgere le mansioni strettamente richieste dal contratto, senza offrire alcun contributo extra o assumersi responsabilità aggiuntive in nessun tipo di progetto, neppure in quelli più stimolanti, è evidente che qualcosa non clicchi più come dovrebbe;
- mancanza di iniziativa. L’assenza di proposte, idee o contributi proattivi tratteggia il quiet quitter, che si limiterà a seguire le istruzioni ricevute, senza dare nulla di più;
- resistenza al cambiamento. Il rifiuto di adattarsi a nuove procedure o tecnologie, preferendo rimanere nella propria zona di comfort e svolgere il lavoro nel modo più semplice possibile, quasi come un robot, si ricollega agli altri segnali di disingaggio, delineando una cesura dalla dimensione professionale.
Strategie aziendali per intercettare e prevenire il fenomeno
Le risorse umane e i quadri dirigenziali hanno modo di tenere sotto controllo il fenomeno del quiet quitting 2.0. Un buon punto di partenza per prevenire la situazione è quello di rafforzare la cultura d’impresa e verificare periodicamente motivazioni e soddisfazione della forza lavoro.
Ragionare per obiettivi, non per compiti da svolgere e completare entro la giornata, offrendo prospettive di crescita reali e gratificanti aiuta le persone ad affrontare il lavoro in modo diverso e a sentirsi più coinvolte. I manager devono avere chiare le priorità su cui focalizzarsi. Una volta individuate, sarà più facile organizzarsi e capire su quali aspetti insistere, al fine di portare i dipendenti alla realizzazione professionale.
I manager dovrebbero fare di tutto per mantenere un dialogo aperto, costante e costruttivo. Un approccio di continuous feedback mantiene alti i livelli di engagement e rende i collaboratori parte dell’organizzazione. Questi, infatti, sentiranno che la loro opinione conta ed è tenuta in considerazione. Allineandosi sugli stessi obiettivi è possibile condividere una vision aziendale comune. Il dialogo con i datori di lavoro, o i superiori, è fondamentale. Non sottovalutiamo però neppure l’interazione con i colleghi. La condivisione e distensione restano fondamentali anche per il lavoratore da remoto. In un tale contesto, è bene sostituire le pause caffè tradizionali con momenti di team building alternativo.

Leadership empatica e cultura del feedback
L’iniziativa appartiene a chi siede più in alto, per così dire, nella gerarchia aziendale. Manager e datori di lavoro devono aggiungere alla loro cassetta degli attrezzi l’empatia. I leader di maggior successo sono anche dei bravi comunicatori. Ciò non significa soltanto riuscire a creare un rapporto orizzontale e sapersi esprimere in maniera efficace ma, soprattutto, essere buoni ascoltatori. È l’orecchio che restituisce il polso della situazione, chiarendo come stia il nostro interlocutore e se attraversi un momento no. Chiudersi nelle proprie stanze a valutare solo ed esclusivamente i risultati è un approccio profondamente sbagliato. Dietro ai numeri vi sono delle persone.
Chiedere frequentemente feedback può sembrare tedioso. Eppure è una pratica illuminata, che dà modo all’impiegato di chiarire la sua situazione attuale. Dare spazio alle opinioni del lavoratore non è soltanto un modo per prendere il polso della situazione e capire se vi sia bisogno di interventi particolari per migliorare la quotidianità di chi impieghiamo, bensì è anche un modo di mettere il professionista in vetrina, facendogli percepire che le sue idee e le sue opinioni valgono, e sono tenute in considerazione. In questa maniera si rafforzerà la sua autostima e si creerà una dimensione serena, nella quale il dipendente acquisterà consapevolezza nei suoi mezzi e nelle sue possibilità.